Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica di Paolo Virno.
di Federico Simonetti (Independent researcher). Una crescente sensazione di impotenza affligge una consistente parte dell’umanità, nel confronto quotidiano con i temi piccoli e grandi della vita – dalla pandemia al riscaldamento globale, dalla crescente marginalizzazione dei diritti dei lavoratori alle crisi migratorie globali. È una “paralisi frenetica”, che agita e governa le forme di vita contemporanee: tale è la diagnosi che Paolo Virno fornisce della nostra contemporaneità nel suo ultimo saggio, uscito per i tipi di Bollati Boringhieri, nel novembre del 2021.
Una diagnosi che, a partire dal titolo Dell’Impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica, sembra decisamente calzante in un orizzonte contemporaneo connotato da una difficoltà strutturale a fare o anche solo a pensare di fare qualcosa che possa cambiare lo stato (piuttosto desolante) di cose presenti.
Il saggio può essere letto come una naturale prosecuzione del percorso intrapreso da Virno nel 2013 con il Saggio sulla Negazione. Per un’antropologia linguistica (Virno, 2013) e proseguito quindi con Avere. Sulla natura dell’animale loquace (Virno, 2020) nel 2020. Di questo progetto Dell’Impotenza riprende temi e riflessioni sul ruolo della natura umana nel postfordismo e sul ruolo della negazione come componente fondativa del linguaggio, seppure in una cornice tematica più circoscritta.
Per Virno, l’inquietudine del contemporaneo arriva a un punto tale da paralizzare le forme di vita: esse non riescono più né a fare né a subire ciò che loro converrebbe, non riescono quindi più ad agire nel modo che sarebbe più appropriato. Tale impasse è per Virno provocata «da una impotenza dovuta all’eccesso inarticolato di potenza, provocata cioè dall’affollarsi oppressivo e assillante di capacità, competenze, abilità» (Virno, 2021, p. 9).
Per tracciare la traiettoria di questa impotenza, Virno ricorre a una cassetta degli attrezzi molto variegata (dalla fisica aristotelica alla linguistica di Benveniste): innanzitutto, ci dice e ci ripete, l’impotenza non è in alcun modo una mancanza, ma è l’effetto di un eccesso di dynamis, di un accumulo di potenza e di potenzialità che non riescono mai a tradursi in atti “forgiati con cura” prima di tutto perché non è possibile fare ricorso a una limitazione di tale potenza esuberante. I lavoratori del modo di produzione postfordista – che Virno sembra identificare per lo più coi precari, ma che per esperienza diretta posso dire non coincidere soltanto con questa categoria – sono coloro che mettono in gioco le proprie facoltà timiche e che vivono in una condizione di costante accumulazione di capacità e skill che si traducono però prevalentemente in una condizione di non-utilizzo, tendendo sempre verso una prestazione che non si tradurrà mai in un atto “forgiato con cura”. Tale accumulo tenderà invece a estinguersi in una potenza bloccata, marcescente, dopo essersi prodotto in una performance puntuale, «una esecuzione senza predecessori né eredi, il cui pregio presunto è di essere irriproducibile» (Virno, 2021, p. 101).
A cosa serve o, forse meglio, da dove viene una tale potenza inattuabile? Riprendendo le riflessioni già portate avanti in Grammatica della moltitudine: per una analisi delle forme di vita contemporanee (Virno, 2014), Virno riconduce l’origine di questo eccesso di potenza alla messa a valore del general intellect, ovvero della capacità degli esseri umani di tessere relazioni tra loro, in vista del compimento di uno sforzo. Tale capacità è per sua natura una potenza infinita, una mera potenza potremmo dire, poiché si esprime nella sua capacità di generare relazioni e dunque espandere il suo potenziale. Questa mera potenza è, per Virno, il principale motore della cooperazione sociale, sfruttata attraverso la storia e i sistemi economici con la consapevolezza che «la potenza complessiva di cento operai che cooperano tra loro sopravanza di gran lunga la somma delle potenze possedute dai singoli operai» (Virno, 2021, p. 90). Ciò che c’è di diverso nel contemporaneo, in quella inversione inedita rappresentata dall’avvento del post-fordismo, è il fatto che tale potenza, da semplice motore della produzione, si trasforma nella materia prima sulla quale la produzione opera, ciò su cui si applica la fatica del lavoro contemporaneo, ciò a partire da cui è necessario produrre un valore.
Se tale materia prima è una potenza infinita e amorfa, è pressoché impossibile darle una forma definitiva, è pressoché impossibile dividerla e sezionarla, è impossibile cioè limitarla o prevederla. Questa indivisibilità e imprevedibilità porta alla scomparsa delle mansioni dal vocabolario della forza lavoro contemporanea: «la performance è una esecuzione mai pronosticabile, sollecitata o imposta da circostanze effimere e sorprendenti» (Ivi, p. 101) e non può pertanto essere oggetto di una mansione predeterminata o di un set di skill generiche, acquisite e stabili. Per sua natura, è dunque il modo di produzione contemporaneo a favorire l’emergere di forme di vita destinate all’accumulazione di potenze mai pienamente espresse in atti ben formati, forme di vita dunque destinate a essere strutturalmente impotenti.
È piuttosto facile fare esperienza di questa impotenza, se con “fare esperienza” non intendiamo rappresentarla in modo scientifico e analitico, ma percepirla nella sua evidenza fenomenica, esserne coinvolti emotivamente. La cosa complicata, semmai, e lo segnala anche Virno, è trovare il modo per conviverci o superarla – e questo è dovuto anche a una specificità dell’impotenza contemporanea, che si configura anche come incapacità di compiere gli atti caratteristici del patire: accogliere, sottrarsi, aderire, resistere. Dal momento che è anche «l’impotenza di subire, la dolente adynamia tou paschein» viene sottoposta all’eccesso di potenza e dunque viene «trasfigurata a virtù civile grazie al culto della “flessibilità” e della “formazione ininterrotta”. A velare la carenza di atti del sopportare provvede sempre di nuovo la sovrabbondanza di atti sopportati» (ivi, p. 43). A mancare, in questo caso, sono quei riti e quelle abitudini che riescono a incanalare in azioni specifiche la capacità di subire: riti e abitudini spiazzati e spazzati via dalla permanenza della potenza di patire in un simile stato di potenza, appunto, senza mai potersi tradurre in atti del patire: ecco che questo ci pone nella condizione di poter soltanto incassare i colpi, spesso in modo totalmente inadeguato e inefficace rispetto alla situazione – cosa che ci rende, una volta di più, vittime sostanzialmente impotenti.
Oltre agli atti del fare e quelli del patire, a essere coinvolti dall’impotenza contemporanea ci sono anche gli atti negativi, che condividono la capacità di sospendere: essa «si applica sempre e soltanto al passaggio dalla potenza all’atto» (ivi, p. 53) ostacolando il tradursi in atto di una facoltà o di un’abilità che restano tali. Sono “atti del terzo tipo” come la rinuncia, l’omissione, il differimento «mescolati ma non equiparabili a quelli dei due tipi più noti e studiati» (ivi, p. 52), figli di una potenza di sospendere che, per sua natura, non può che esercitarsi su una potenza in procinto di divenire atto, nel passaggio tra l’una e l’altra. È proprio questa facoltà di sospendere che assume i tratti della «dynamis che genera adynamia» (ivi, p. 54), potenza capace di disinnescare ogni atto e rendere permanentemente inattuale la potenza stessa, provocando un differimento infinito, un’esitazione senza fine.
Ma com’è possibile uscire da un simile stallo? Per Virno «per debellare lo stato d’impotenza cronico, fomentato negli ultimi decenni dalle azioni negative, l’istituzione mobilita contro tali azioni proprio la dynamis da cui provengono, facendo in modo che si ometta l’omissione, ci si astenga dall’astenersi, si differisca il differimento» (Ivi, pp. 127-128). In breve, per Virno, il modo di uscire da un simile vicolo cieco dell’azione sta nel recuperare e rivalorizzare la capacità del non, la sua forza, rovesciare la negazione in una sua negazione – senza ritenere che ciò equivalga banalmente a un’affermazione (come nell’enunciato “non dico che non ti amo”).
È alla facoltà di sospendere, al suo rovesciamento in una nuova e diversa capacità di sospendere la sospensione, di portarci a un atto che Virno affida il compito di costruire e sostanziare l’istituzione postfordista: l’istituzione è in effetti una reificazione del “tra”, della soglia tra potenza e atto. Un’istituzione, cioè, che attua la circoscrizione dell’infinito rende maneggiabile una potenza destinata altrimenti a essere illimitata. Tale limitazione può avvenire solo attraverso tecniche, sperimentazioni e idee di cui per Virno la moltitudine precaria è portatrice. Gli esempi che il testo offre, in questo senso, sono presi dalla tradizione storica dei movimenti di lotta per il lavoro, come il soviet operaio o il forum online degli insegnanti precari, a cui l’autore faceva riferimento anche nei testi precedenti (in particolare i già citati Della Negazione e Avere). Accanto a queste possibili istituzioni del comune, la tentazione sarebbe quella di suggerire un’ibridazione teorica, forse affascinante, proprio con le sperimentazioni e le tecniche derivanti dall’ingegno di Bernard Stiegler che del tentativo di biforcare lo spirito capitalista aveva fatto una sua personale missione – sperimentazioni volte proprio a creare delle istituzioni adatte all’epoca postfordista (cfr. Stiegler, 2022).
D’altra parte, come ci suggerisce Virno, «all’identikit dell’impotenza contemporanea, l’istituzione aderisce come […] il guanto della favola, desideroso di farla finita con la mano che ricopre. Capace di corrodere e lacerare quella mano detestata proprio perché, non distaccandosi mai da essa, ne conosce a perfezione la forma e le più minute articolazioni» (Ivi, p. 131).
Bibiliografia:
Bernard Stiegler, 2022, La miseria simbolica 1. L’epoca iperindustriale, Meltemi.
Paolo Virno, 2013, Saggio sulla Negazione. Per un’antropologia linguistica, Bollati Boringhieri.
Paolo Virno, 2014 Grammatica della moltitudine: per una analisi delle forme di vita contemporanee, Bollati Boringhieri.
Paolo Virno, 2020, Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri.
Paolo Virno, 2021, Dell’Impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica, Bollati Boringhieri.
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