Saggio sul triangolo scienze/tecniche/potere, di Jean-Paul Malrieu (Napoli, Guida, 2022).
Il volume, curato da Alessandro Arienzo, con una prefazione di Stefano Isola e una post-fazione di Gianfranco Borrelli, arricchisce la collana Filosofia, Innovazione, Democrazia del nostro centro Studi.
Dalla prefazione di Stefano Isola
Il dibattito sullo stato della ricerca pubblica e della formazione superiore, che nel nostro paese attrae un’attenzione assai scarsa, e generalmente circoscritta agli addetti ai lavori, può avvalersi ora di questo contributo di Jean-Paul Malrieu, un testo pubblicato nel 2011 (Paris, Ombres Blanches) ma arricchito da alcune revisioni e aggiornamenti per l’edizione italiana. Scritto in un momento storico in cui in Francia il mondo universitario e della ricerca pubblica erano oggetto di attacchi senza precedenti da parte dell’autorità politica, che li accusava di inefficienza e inadeguatezza nei confronti delle “sfide globali”, questo libro prende le mosse anche dalla «dolorosa impotenza» espressa dall’ambiente accademico in quella circostanza per esaminare con profondità critica e spirito appassionato le articolazioni sociali e le ragioni strutturali di una crisi che, in Francia come in Italia e altrove, sembra aver ormai largamente svuotato di senso il mondo dell’accademia e della libera ricerca di base.
Pubblichiamo la post-fazione di Gianfranco Borrelli
Nei primi anni Settanta, nel pieno fervore dei movimenti di lotta che tentavano di realizzare finalmente in Italia una svolta democratica, un gruppo di intellettuali napoletani dava vita alla casa editrice Thélème. Il progetto era quello di favorire contributi significativi nell’ambito di un impegno collettivo di studio che partiva dall’assunzione preliminare della teoria marxiana di critica della politica. L’iniziativa veniva intrapresa da docenti universitari – tra i tanti conviene fare almeno i nomi di Ennio Galzenati, Renato Musto, Emilio Del Giudice, Alfredo Laudiero – che avevano partecipato agli eventi del ’68 a Napoli dando vita al raggruppamento della Sinistra universitaria. A fine anni Sessanta, l’intenzione principale dei movimenti delle insorgenze a Napoli, inclusa la Sinistra universitaria, era stato quello di rimettere in gioco teoria e prassi del leninismo, a partire dall’università e nelle scuole: la possibilità della trasformazione restava assegnato ad un taglio che si considerava necessario nella storia italiana, da realizzare con piena volontà politica e con gli strumenti dell’organizzazione partitica riusciti vincenti nel contesto dell’ottobre russo del 1917 e nell’avvio della sperimentazione dei Soviet. Negli anni del rapido ripiegamento delle insorgenze, era rimasto il segno dell’adesione al leninismo, peraltro l’attenzione veniva ora rivolta al Lenin che incitava la gioventù sovietica a lavorare intensamente nei luoghi della produzione e soprattutto nella campagne, operando in modo da integrare lavoro e studio, favorire la crescita della cultura popolare ed insieme rinforzare la conversione alla rivoluzione nelle nuove generazioni (vedi il discorso di Lenin al terzo Congresso panrusso del Komsomol nel 1920). In realtà, la consapevolezza di avere vissuto e fallito un’ulteriore occasione di radicale avanzamento politico per la città spingeva ora verso necessari riposizionamenti: innanzitutto, allontanare ogni minimo cedimento allo spettro della violenza come forma immediatamente reattiva alla sconfitta; di questo genere di disperata esperienza si viveva anche a Napoli qualche preoccupante avviso. Ancora, il nucleo ancora vivo di questa organizzazione si convinceva della necessità di approfondire tematiche e problemi connessi agli esiti non soddisfacenti di quelle lotte: istituendo una specie di continuità con il passato movimento che veniva ristagnando, si voleva almeno confermare l’importanza centrale della ricerca teorica a tutto campo per affrontare con attrezzi aggiornati la questione politica. Si trattava, per un verso, di ridimensionare la tendenza di richiamare l’opera di Marx per contesti prevalentemente filosofici: i rapporti con Hegel e il positivismo, la centralità della teoria dell’alienazione/feticismo, le relazioni tra critica rivoluzionaria e crisi capitalistica, e così via; piuttosto, si auspicava di innestare positivi fermenti e operare utili confronti tra quella tradizione teorico-politica appartenente alla storia del movimento operaio con altri generi scientifici: teoria fisica, biologia, psicoanalisi, sociologia, etc. Le motivazioni più interne che sollecitavano questi studi riguardavano ameno due punti focali; il primo riguardava il cambiamento della natura stessa del lavoro in un’attività sempre più cognitiva e intellettuale: si pensava che da questi processi sarebbe stata posta in crisi la figura del soggetto operaio di fabbrica, la sua capacità di pratica sociale e di cosciente conversione politica. Ma un’ulteriore apprensione si affacciava: in seguito a processi che venivano legando più strettamente gli operai ed i lavoratori ai luoghi della produzione, si sarebbe potuta acuire la distanza di questi soggetti dal nucleo principale dell’antagonismo politico, dall’organizzazione politica. Con preoccupazione, si vedeva profilarsi all’epoca la crisi di ruolo dell’avanguardia operaia e il tracollo della militanza politica: crescente, invece, appariva nella sinistra politica la separazione tra dirigenti politici, provenienti dai ceti medi borghesi, e la base proletaria sempre più interdetta nei processi della decisione politica.
Ecco allora affermarsi la determinazione di investire la maggiore parte dell’impegno politico in un’attività di studio che giungeva fino al punto di rimettere in discussione alcuni snodi principali del progetto dichiaratamente comunista. In particolare, le critiche si concentravano sulle polarità strategiche che sembravano radicalizzare inutilmente lo scontro tra le classi e ritardare la maturazione del movimento generale di trasformazione: da un lato, lo spontaneismo, frutto di volontà politiche esasperate, rappresentate soprattutto nelle tattiche dei diversi operaismi; per un altro versante, le persistenti innumerevoli espressioni del determinismo giustificato con gli schemi economici oppure attraverso le argomentazioni della pura speculazione filosofica. Motivata certamente da questi indirizzi critici fu la scelta del gruppo redazionale di Thélème di pubblicare un’opera, impegnativa poiché divisa in due parti, di un ricercatore francese Jean Paul Malrieu, che nella traduzione italiana prende i titoli di In nome della necessità. Vol. I, L’economicismo delle teorie economiche; Vol. II, L’ideologia della necessità, Napoli 1973; con ristampa, Roma 1975). Senza andare nei dettagli, si può riferire che gli intenti principali dell’autore, fisico di professione, si rivolgevano a smentire proprio quel genere di determinismo che infestava in larga parte la scienza economica contemporanea: insieme, veniva condotta una critica durissima nei confronti dell’equivalente taglio meccanicistico impegnato in campo filosofico dallo strutturalismo, utilizzato pure da Louis Althusser per sostenere e rilanciare una lettura scientista della dialettica hegelo-marxiana.
Accade poi che, a distanza di oltre quarant’anni da quella pubblicazione, il nome di Jean Paul Malrieu, ben noto sul piano della ricerca scientifica, assume ancora evidenza per avere richiamato l’attenzione sul tema attualissimo di quanto viene comunemente definito tecnoscienza; la pubblicazione, che viene oggi riproposta in Italia, sollecita infatti a rivolgere l’attenzione alle strettissime relazioni che assegnano un senso particolare all’avvitamento di tre piani diversi: la scienza come ricerca pura, la conversione immediata dei risultati scientifici nelle forme di tecniche/tecnologie, ed ancora la finalità permanente di collegare questi processi all’esercizio diffuso dei poteri economici e politici. Le articolazioni del discorso critico di Malrieu valgono innanzitutto come testimonianza vivissima di un ricercatore che, posizionato all’interno della comunità scientifica europea, lancia un allarme d’urgenza; innanzitutto, la conversione della ricerca scientifica in protocolli di natura tecnica, che trovano sostegno prevalentemente nell’intelligenza artificiale e nell’utilizzo ossessivo dei big data: vale a dire l’assemblaggio di una quantità enorme di informazioni non finalizzate alla spiegazione scientifica, rivolti piuttosto a favorire procedure utili per fattispecie diverse di applicazioni e di profitti. A questo genere di urtante sovrapposizione risulta difficilissimo sottrarsi e la stessa accademia sembra impossibilitata a garantire piena autonomia e tempi propri alle attività strettamente connesse di ricerca e didattica. Negli anni settanta, nel contesto italiano, importanti studiosi come Marcello Cini, Carlo Bernardini, Francesco Guerra assegnavano un particolare riguardo a questo genere di problemi: le relazioni strutturali e critiche tra scienza e sviluppo sciale, la salvaguardia del primato pubblico della ricerca scientifica, la diffusione su larga scala delle conoscenze scientifiche. Oggi, questo impegno di necessari richiami appare sbiadito nella comunità scientifica italiana; da almeno trent’anni a questa parte, i finanziamenti sempre più scarsi assegnati dalle politiche governative alla ricerca rendono asfittica e condizionata la partecipazione di gran parte degli studiosi; insieme, viene meno il sostegno dell’opinione pubblica e l’attività dei ricercatori soffre una crescente solitudine. Speriamo allora che questo libro contribuisca anche in Italia a fare innalzare il livello dell’attenzione dei cittadini e dei territori nei confronti del settore purtroppo sottostimato della ricerca scientifica e accademica.
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