UDO. Guida ai videogiochi nell’antropocene di Matteo Lupetti
Il videogame come medium ormai è entrato nell’orizzonte della discussione sociologica, politica e multimediale della nostra società: il dibattito accademico e pratico su quella che ormai viene definita “la decima arte” interessa ormai non solo gli addetti ai lavori, ma abbraccia gli approcci multidisciplinari più vari, dagli studi di settore a quelli specialistici. Malgrado ciò, a riflessioni e analisi ristrette su ciò che il videogioco fa e su come funziona, sembra sempre più mancare ed essere urgente una riflessione più ampia su cosa il videogioco sia e su quali possano erre i suoi effetti più generale.
È in questo contesto, in questa necessità di trovare un discorso teorico proprio del videogioco che rientra la riflessione proposta in UDO: che senso può avere il continuare a giocare in un mondo che sembra esplodere? O meglio, in un mondo che dovremmo avere la forza di cambiare radicalmente? Questa sono alcune delle domande di fondo che Matteo Lupetti si fa e ci fa nella sua prima fatica editoriale sulla lunga distanza, per i tipi di SIDO.
Seguendo la linea teorica tracciata da Timothy Morton e della ontologia orientata agli oggetti, Lupetti definisce i videogiochi in quanto “oggetti digitali non identificati”, o UDO: non soltanto un oggetto tecnologico o un’esperienza narrativa, ma qualcosa che sfugge a ogni definizione specifica, proprio perché si tratta di un prodotto capace di rendere in qualche modo reali idee e fantasie delle persone che lo programmano, ma allo stesso tempo comprende all’interno del suo funzionamento e del suo essere tanto l’agire del giocatore quanto quello della macchina stessa. Per quanto sia possibile descrivere i diversi “livelli di realtà” del videogioco, le diverse linee di forza che lo definiscono e lo compongono, è molto complesso esprimersi su cosa sia un videogioco, quando spesso e volentieri è più utile concentrarsi su cosa esso non-sia, ovvero su come esso viene agito. Quando giochiamo a un videogioco, infatti, stiamo sempre instaurando una relazione tra l’umano il non-umano, una relazione cangiante e non sempre prevedibile e che, infatti, produce spesso effetti totalmente imprevisti: non è un caso che il testo dedichi una parte molto importante al fenomeno dei bug e dei glitch, che rappresentano, secondo Lupetti, un’importante finestra su quanto di perturbante e queer ci sia all’interno dei videogiochi, su quanto sia possibile, per la macchina, andare oltre il programma e continuare a essere giocata e a giocare con il giocatore.
Si può guardare alla contemporaneità sotto numerose ottiche e prospettive, ma UDO sceglie di farlo utilizzando come punto di partenza proprio il videogioco, cercando di portare avanti la demistificazione di questo particolare prodotto, in modo da mettere in evidenza tutti i passaggi produttivi: seguendo questo particolare tipo di merce, infatti, è possibile vedere diversi stadi del capitalismo, diversi elementi di ingiustizia e sfruttamento (tanto dell’uomo sulla natura, quanto dell’uomo sull’uomo). Gli UDO che danno titolo all’opera sono prodotti estremamente complessi della “grande accelerazione” capitalistica e diventano così il medium per eccellenza dell’Antropocene.
UDO ci suggerisce che il videogioco, nella sua condizione di prodotto del capitalismo, nasconde la sua reale natura di “oggetto digitale non identificato”, tanto che nelle mani del giocatore esso smette di essere un oggetto industriale e appare come un oggetto quasi magico: è proprio per operarne una demistificazione che i capitoli del testo sono strutturati come un progressivo disvelamento dei vari layer tecnici o tecnologici che compongono l’industria videoludica, proprio per provare a indagarne la complessità. Di conseguenza, anziché fare un’indagine sul medium videoludico – ossia su cosa i videogiochi dicono o possono dire – UDO si configura come un’indagine critica del loro modo di produzione, lasciando sfumare l’elemento semiotico e strettamente ludico, quasi fino a scomparire.
L’aspetto più interessante dell’opera è proprio questo tentativo di far entrare in scena, nel dibattito sul videogioco, tutto ciò che di esso finisce per essere perturbante (unheimlich), insolito, straniante per il pubblico: UDO cerca di mostrare il lato non-umano che coinvolge tutti i passaggi dell’esistenza di un videogame, ciò a cui noi fruitori prestiamo meno attenzione (come lo sfruttamento del lavoro, le reti di distribuzione costruite per diventare monopoli od oligopoli) e ciò a cui non pensiamo affatto (come il costo e l’impatto ambientale del modo in cui vengono prodotte le nostre macchine, oltre che il costo energetico che ha il nostro modo di giocare). In questo senso, UDO non è tanto un’opera sul videogioco, quanto un’opera sull’antropocene. Per Lupetti, anzi, i videogiochi sono il medium dell’Antropocene per eccellenza, in quanto medium dell’agency: essi testimoniano del potere umano sul pianeta e sul suo destino, sia in quanto rappresentano per certi versi il culmine della raffinatezza tecnologica, sia perché in qualche modo comunicano al giocatore la costante sensazione di essere in controllo di qualcosa. Seguendo la linea teorica tracciata da Bertrand Gille, potremmo dire infatti che il videogioco rappresenta l’apice del sistema tecnologico dell’età contemporanea, portando in sé le concatenazioni dei vari sistemi tecnici e sociali necessari alla sua ideazione, produzione, circolazione e fruizione.
Accanto a questa riflessione sul modo di produzione, un’importante parte del testo è infine dedicata a ricostruire una storia del videogioco, ripercorrendone le tappe salienti, soprattutto nell’ottica del concatenamento tecnico-commerciale, ovvero come la continua evoluzione tecnica è stata sfruttata commercialmente: è singolare notare, come fa UDO, che lo sviluppo tecnico dei videogiochi come strumento di intrattenimento sia stato costellato da interazioni con il military-entertainment complex, cioè con quel particolare complesso di relazioni che vedono l’Esercito degli Stati Uniti d’America intervenire a vario titolo nella creazione, produzione o finanziamento di moltissimi prodotti d’intrattenimento, spesso beneficiandone a livello di immagine. D’altra parte, ci dice ancora UDO, il videogioco è un prodotto figlio della guerra fredda, non solo a livello cronologico: moltissimi ingegneri militari, una volta finita la seconda guerra mondiale, hanno sviluppato giochi o fondato studi di sviluppo. E d’altra parte si contano a migliaia i giochi che rispecchiano le idee del proprio tempo sulla guerra, spesso senza alcun genere di riflessione critica: dal primissimo Space War, che non era altro che una simulazione di una battaglia nello spazio tra due astronavi all’alba del programma Apollo, fino ai più recenti Call of Duty nei quali i “cattivi” sono dei mercenari ispirati al gruppo Wagner, la guerra è spesso un tema d’elezione del videogioco come medium, forse anche più del cinema. Su questo tema, tuttavia, è opportuno notare che se un collegamento tra militarismo e videogiochi esiste ed è forte, una storia in qualche modo contraria a questo punto di vista è certamente possibile: sono stati moltissimi i giochi che hanno provato a portare avanti una riflessione critica nei confronti della guerra (la serie di Fallout, la serie di Metal Gear e le perle antimilitariste come This war of mine) e, d’altra parte, tanta storia del gaming è stata scritta da persone e personaggi che erano fuori da uno spirito militarista o capitalista ed erano piuttosto ispirati dai valori del movimento hippy (come testimonia la storia del marchio Atari, almeno fino alla fine della sua guida da parte di Nolan Bushnell). Anzi, osservando la storia del videogioco non come medium, cioè dal punto di vista del suo contenuto e di ciò che esso vuole e può dire, come fa Mathieu Triclot, possiamo affermare che gran parte della storia del videogioco degli albori sia stata scritta più da queer e troublemaker che da avidi capitalisti e generali dell’esercito.
UDO è certamente un’opera complessa e peculiare: è insieme una riflessione sul mondo dei videogiochi e una riflessione sul nostro mondo e sul rapporto che abbiamo con esso, specie attraverso un rapporto con le macchine. Per ammissione dello stesso autore – o per meglio dire, della persona il cui nome è in copertina – è un’opera corale, scritta insieme a tutte le altre che ci hanno collaborato direttamente e indirettamente, specie condendo il ricchissimo apparato di altre letture che non mancano di essere riportate in nota. È un “oggetto critico non-identificato” che sta a metà strada tra il saggio critico, la riflessione filosofica e il manuale di critica videoludica. È certamente un libro che segna un punto, importantissimo, nella riflessione sul medium più importante – e più sottovalutato – per la produzione di immaginario delle generazioni nate dopo gli anni ‘90.
È soprattutto un’opera che rigetta ogni “buon senso” e si getta a capofitto nel tentativo di guardare il mondo dal punto di vista degli oggetti, schivando ogni antropocentrismo, e contribuendo a darci un’immagine dell’umano un po’ più piccola e un po’ più mediocre: ed è opinione di chi scrive che di tentativi come questo ne servano tanti, se vogliamo veramente evitare che il mondo continui a esplodere.
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