Filosofia del gaming. Da Talete alla Playstation di Tommaso Ariemma
di Federico Simonetti (indepent researcher). A partire dai primi anni ’50, informatici e programmatori hanno cominciato a usare le loro macchine elettroniche per costruire sistemi di gioco relativamente semplici, per giocare a tris o a Nim. Si trattava per lo più di simulazioni matematiche che non avevano grosse pretese, se non quella di dimostrare la potenza di calcolo dei nuovi prodotti ingegneristici. La storia del videogioco, però, comincia a farsi qualcosa di serio con Tennis for Two, un gioco creato da William Higinbotham al Brookhaven National Laboratory nel 1958 utilizzando un computer analogico e un oscilloscopio come display: si trattava del primo vero e proprio esempio di gameplay e, di conseguenza, dell’apertura di un nuovo modo di giocare e, di conseguenza, di un nuovo modo di fare esperienza del mondo.
Malgrado una storia lunga quasi settant’anni, però, il videgame non è stato in grado di suscitare un’adeguata riflessione, una riflessione ampia, quantomeno, da parte della filosofia, lasciando il campo d’indagine critica su questo medium principalmente alla sociologia, alla psicologia e alla game theory. Tutte queste discipline hanno ovviamente dato un enorme contributo al dibattito sugli effetti e il ruolo che il videogioco ha sugli individui e sulle società, ma non hanno spostato di molto la consapevolezza filosofica sull’evento che il videogame rappresenta per l’evolversi della nostra specie. In particolare dal momento che, almeno negli ultimi trent’anni, i videogame sono diventati parte del linguaggio comune, dell’esperienza quotidiana – se non proprio costante – di miliardi di persone.
La riflessione che Tommaso Ariemma ci consegna nella sua recente fatica inquadra proprio questa esigenza di una riflessione filosofica strutturata sul videogioco. Lo fa partendo da un assunto di base: ormai non parliamo di un medium specifico, ma di un intero modo di vedere la realtà. Ci basta aprire un social network, cominciare un programma di allenamenti o sottoscrivere una tessera punti al supermercato per renderci conto che, ovunque ci sia un’attività da fare veicolata attraverso un layer digitale (un’app, un sito web, etc.) essa sarà stata in qualche modo gamificata, cioè adattata alle logiche di un videogame. Noi siamo tutti dentro un videogioco, nel senso che già avere uno smartphone, già fare esperienza dei social network come Tik Tok o Instagram significa avere accettato un codice, un tipo di organizzazione dei contenuti e dell’esperienza d’uso che proviene dal videogioco. Ma questa continua partecipazione al videogioco, che sono le esperienze digitali, non è innocua: essa è parte del meccanismo di cattura di dati, preferenze e abitudini che proviene dai dispositivi del capitalismo algoritmico, descritto da Shoshana Zuboff nel suo Il capitalismo della Sorveglianza. Per questa ragione è importante cominciare a interrogarsi sui motivi e gli schemi che permettono al videogioco come dispositivo di funzionare e attrarre.
Ma non è solo per questo motivo che, secondo l’autore, è opportuno porre in relazione filosofia e videogame: in realtà, per Ariemma, la filosofia è già da sempre in relazione con il mondo che i videogiochi hanno disegnato, un mondo fatto di astrazione e immersività. Fu la filosofia, nel luogo della sua origine, a pensare il Tutto come qualcosa in cui siamo immersi, in una maniera non dissimile da quanto accade in un videogioco. Ed è forse anche per riflettere questo “enorme salto” che è stato necessario ai primi filosofi per astrarsi del mondo, ci dice Ariemma, che i videogiochi sono stati inventati, anche se millenni dopo.
In un perfetto stile pop è quindi possibile immaginare in Eraclito il primo streamer, in Platone il primo game designer, nella cameretta di ogni gamer che si rispetti un riflesso della wunderkammer dei filosofi moderni.
È dunque un doppio meccanismo quello che Filosofia del gaming propone: da una parte, attraverso la metafora del videogioco, è possibile presentare alcuni dei temi e degli autori fondamentali della filosofia; dall’altra, però, è possibile per la filosofia anche avanzare, confrontarsi con degli elementi, delle possibilità, delle passioni e delle narrazioni nuove e inedite, che diventano un campo d’indagine e di confronto per l’analisi filosofica.
Filosofia del gaming è un’opera che nel suo intimo testimonia un’urgenza espressiva evidente, senza rinunciare né a un’esigenza divulgativa, né a una sua profondità riflessiva. Un ulteriore passo, ma nella giusta direzione, verso una riflessione strutturata e compiuta che l’autore ha intrapreso da molti anni – tra gli altri, con Platone showrunner e Dark Media – sul legame che la filosofia ha con i media e dell’influenza che i media hanno sul nostro modo modo di pensare – nel doppio senso, che essi ci condizionano, ma insieme ci permettono di pensare in modo del tutto nuovo.
In breve, Filosofia del gaming riesce nell’intento di presentare un’argomentazione audace con una prosa accattivante e una riflessione mai banale: è un peccato solo che essa rappresenti l’inizio di un percorso e non il suo compimento. Insomma, se fosse un videogioco avremmo giocato solo il suo tutorial. Ma non vedremmo l’ora di vedere il seguito.
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