Innovare sembra essere diventato il “mantra” del nostro contemporaneo: dopo migliaia di anni nei quali gli uomini si sono tramandati modi, usi e istituzioni, sembra che oggi questo paradigma si sia ribaltato, al punto da farci considerare vecchie cose, procedure e istituzioni che hanno pochi lustri. A volte, pochi mesi. La società contemporanea si trova invasa da ondate di periodiche innovazioni che pervadono ogni aspetto della nostra esistenza. Si annunciano e si ricercano rotture in ogni ambito: tecnologico, medico, musicale, gastronomico… al punto che diventa difficile tenerne traccia. Questi processi spesso trasformano le nostre vite, le nostre abitudini, le interfacce con le quali ci relazioniamo al mondo, le nostre concezioni. E sembrano ubiquitarie: trionfano nelle aziende, sconvolgono le organizzazioni complesse, ribaltano i mercati, le istituzioni e le pratiche sociali.
Ma a cosa serve l’innovazione? Quali conseguenze comporta? Ci troviamo soggetti a un eccesso di innovazione? O, in qualche modo, è possibile trovare un’etica dell’innovazione?
Per provare a rispondere a queste domande Thierry Ménissier, professore di filosofia all’Université Grenoble Alpe e tra i più importanti studiosi del rapporto tra filosofia, politica e nuove tecnologie, ha dato alle stampe un importante studio dal titolo Innovations – une Enquete Philosophique (Hermann 2021). Si tratta di un testo fondamentale, sia per la chiarezza espositiva con la quale traccia una genealogia del concetto di innovazioni, sia per il lavoro di disambiguazione che opera, all’interno di questa stessa categoria, che spesso comprende piani molto diversi tra loro.
Per quanto il termine venga utilizzato in maniera sistematica all’interno delle società contemporanee, finendo per costituire quasi un feticcio, non esiste una sola innovazione: Ménissier distingue, infatti, cinque tipi di innovazione che vanno dal più comune apparire di qualcosa di nuovo in una società, alle forme via via più tecniche, organizzative o economiche, fino ad arrivare a una forma del tutto nuova e distinta, che è l’organizzazione sociale.
La nozione economica di innovazione è figlia della concezione neoliberale della società e si qualifica, nella lettura di Ménissier, come “selvaggia”: è soprattutto nell’opera di Schumpeter, tra i maggiori pensatori a dedicare uno spazio al concetto di “distruzione creatrice” tipico dell’innovazione, che possiamo trovare una lettura della storia che favorisce i salti e le rotture radicali, anziché la continuità e che, in una certa misura, favorisce l’imprevedibilità nei confronti della pianificazione. Questa fascinazione modernista per la rottura imprevista è alla base tanto della lettura contemporanea dell’innovazione, quanto della sua caratterizzazione pienamente capitalistica: è infatti solo all’interno di un contesto in perenne concorrenza e competizione che l’innovazione si rende necessaria, come arma radicale in grado di superare la caduta tendenziale del profitto, spingendo alla ricerca di nuovi bisogni e desideri per la creazione di nuovi prodotti e servizi per soddisfarli.
Le nozioni di progresso e innovazione rappresentano, al contrario, due programmi per certi versi simili della modernità: lo scopo retorico tanto dell’innovazione quanto del progresso è quello del miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, la soluzione dei problemi dell’uomo attraverso l’evoluzione – intesa sempre in modo incrementale – del pensiero scientifico e della tecnica. Tuttavia, a differenza del progresso, l’innovazione si sbarazza di ogni scrupolo umanista, subendo una torsione radicale che la porta a essere distruttiva nei confronti dell’esistente e noncurante delle conseguenze dei suoi effetti: se insomma l’innovazione migliora le condizioni degli uomini, si permette di farlo in modo esclusivo ed escludente, laddove il progresso – quantomeno nelle sue intenzioni – si propone un’avanzata dell’intera umanità.
È interessante notare che Ménissier non oppone il concetto di innovazione a quello di tradizione, come potrebbe sembrare ovvio, quanto piuttosto a quello di resistenza all’innovazione: laddove le società premoderne trovavano nella tradizione la legittimazione per l’autorità, la contemporaneità la trova invece nella tendenza verso il futuro e l’innovazione. Tuttavia non vi è una vera opposizione tra i due termini, al punto che è adagio comune, tra chi si occupa di organizzazioni complesse, o anche solo chi si occupa di comunicazione, la citazione di Oscar Wilde secondo cui “la tradizione è un’innovazione ben riuscita”. È, al contrario, problematica la resistenza che le innovazioni possono incontrare, all’interno delle organizzazioni e dei mercati.
Se l’economia contemporanea, specie a partire dalle analisi di Schumpeter, trova nei processi innovativi e nella distruzione creatrice del mercato il modo per trovare nuove risorse e nuovi processi di realizzazione, il vero avversario è ciò che impedisce che tale processo si compia, ciò che gli resiste. Ménissier analizza il problema del rapporto tra innovazione e consumo nei capitoli dedicati al tema dell’utente e del suo ruolo nella produzione e, soprattutto, del consumo di oggetti e di innovazione: è un tema che, come ci conferma lo stesso autore, ha un enorme portato politico e sociale. Uscita dalla sfera pienamente industriale e “organizzativa”, l’innovazione invade un ambito che potremmo chiamare “sociale” e che condiziona in questo modo, in maniera forse irreversibile, l’avvenire delle società: le società dell’innovazione, governate in maniera preponderante dai fenomeni economici e da un modo di produzione iperindustriale, vivono di un’innovazione costante e frenetica nella proposta di prodotti. Tale innovazione, sottolinea Ménissier, non è solo un modo per ottenere il massimo rendimento dalla riproduzione in serie, ma ha degli effetti sociali ed ambientali, oltre che ovviamente economici: legati a un ciclo di vita molto breve, i prodotti e i servizi “innovativi” spingono a un monitoraggio sempre più prossimo e rigoroso dei consumatori, il cui scopo è quello di osservarne e prevederne il comportamento e i bisogni, in modo da guadagnare dati sufficienti a produrre nuova innovazione, basata sui comportamenti e i bisogni rilevati.
Le emozioni e i sentimenti del consumatore, opportunamente studiati, analizzati e profilati, diventano in questo modo la base per spingere l’accettazione e la vendita di prodotti e servizi, tanto a chi cerca il potenziale disruptive delle innovazioni, quanto a chi ha invece un approccio più cauto e tradizionalista: grazie a un’opportuna targetizzazione, il messaggio può arrivare a pubblici molto diversi dicendo cose molto diverse, ma presentando e provando a vendere sempre lo stesso oggetto, a prescindere dal suo reale potenziale innovativo.
Il rischio di tale processo è di far recedere il desiderio verso forme poco costruite, narcisistiche e regressive, quelle cioè di un edonismo senza freni. Nato e cresciuto all’interno di una “industria del godimento” senza desiderio, tale edonismo rischia di portare gli individui a una perdita dell’identità personale e a forme di seria dipendenza, dovute principalmente a uno stato di perenne eccitazione dovuta alla mole di novità proposte e alla possibilità di soddisfare in maniera immediata le proprie pulsioni.
È il carattere “selvaggio” dell’innovazione, guidati da una necessità costante di disruption e da un atteggiamento irresponsabile nei confronti delle conseguenze per le persone e per il pianeta, a rappresentare un rischio inedito per la specie umana. Al punto che la produzione senza freni e senza limiti serve a compensare un orizzonte di rischio che è quello del fallimento: nella perenne ricerca di innovazioni che possano trovare sempre più utenti, che possano cioè essere facilmente accettate dal mercato e che possano produrre di conseguenza un massimo rendimento, il capitalismo contemporaneo ha sviluppato delle innovazioni nel mondo dei servizi con l’obiettivo di aggredire mercati tradizionali con nuovi modelli di business. I trasporti (Uber), l’ospitalità (AirBnB), la fruizione musicale (Spotify) sono gli esempi più eclatanti di un processo di innovazione che ha stravolto settori tradizionali, non tanto grazie a invenzioni o evoluzioni tecniche (di per sé abbastanza semplici) ma attraverso un modo nuovo di gestire le intermediazioni tra consumatori e fornitori. Tali cambiamenti, tuttavia, non sembrano preoccuparsi delle conseguenze che il proprio modello ha sul mercato nel suo complesso, che spesso finisce per bruciare valore più che crearlo, arricchire pochissimi – in genere i proprietari o gli investitori delle piattaforme stesse – e preparare il terreno per una prossima “innovazione”, che ripeterà il ciclo di disruption.
Un ciclo così violento di produzione e consumo di innovazioni, che devono rispondere a bisogni da soddisfare in maniera sempre più immediata, rende il marketing un’arma estremamente pericolosa: basato sull’uso dell’immaginazione, il marketing è anche il maggiore produttore di immaginario del mondo contemporaneo, che risulta però schiacciato tra la necessità di “piazzare” prodotti e innovazioni e quella di arrivare a più consumatori possibili nel più breve tempo possibile. Preso in questo gorgo, esso si affida dunque a soluzioni via via più semplici, personalizzate certo, ma non in grado di elevare il livello dell’immaginario, di inventare nuove immagini, ma anzi sembra preferire quelle che funzionano tradizionalmente meglio, finendo per svilirle e per contribuire ad abbassare la qualità del desiderio dei consumatori.
In maniera estremamente interessante, Ménissier descrive come il design occupi quindi un ruolo di primo piano nel supportare un marketing sempre più inaridito: il design è infatti una disciplina che si pone a metà strada tra la metodologia di progettazione e la creazione artistica, è a lui che si rivolge oggi la produzione industriale per mettere in moto le strutture ereditate dalla tradizione al fine di ripensarle, rinnovarle, reincantarle o superarle. È proprio grazie a questa sua capacità di dare forma e sostanza a immagini nuove, in un costante spinta verso la creazione con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di rinnovare l’esperienza possibile che, per Ménissier, il design può rappresentare uno strumento per l’etica e la politica – non solo quindi per il marketing e il consumo.
Ciò può avvenire, però, solo a patto che il design si metta al servizio di forme di innovazione partecipata, nel quale le comunità politiche possano effettivamente costruire forme di “istituzione immaginaria” della società, producendo innovazione sociale. Un modello che sfugge ai due tipi di innovazione che operano come egemonici nel mondo contemporaneo: essa si distanzia tanto dall’innovazione imprenditoriale, che attiva il rinnovamento della produzione industriale, tanto dall’integrazione del processo di innovazione nell’impresa, che mira a un’innovazione dell’organizzazione interna. L’innovazione sociale può, in qualche modo, testimoniare che una società è più che l’insieme dei bisogni dei singoli membri, e non è mai chiusa sul proprio presente. Distante da un modello di innovazione “selvaggia” e irresponsabile, l’innovazione sociale può orientare la forza dirompente delle innovazioni nel senso di una reinvenzione dell’attività collettiva e socializzatrice: innovare, in questo senso può significare incrociare un discorso d’invenzione con l’uso di certi strumenti, esercitando la potenza della creatività sull’attività umana e consentire la reinvenzione della società attraverso l’immaginario – non con lo scopo dell’accrescimento economico (e quindi della mera soddisfazione del bisogno immediato), ma spirituale (e dunque desiderante) dell’umano.
L’innovazione può dunque sfuggire all’orbita della mera riproduzione dell’esistente, per quanto costantemente innovato, alla sua riproduzione seriale in cerca di massimo profitto e mettersi al servizio della singolarità, del saper-fare e del saper vivere? Coerentemente, questo compito Ménissier lo riserva non tanto agli innovatori e agli inventori di professione – quelle figure descritte all’inizio del testo, figlie della mitologia del genio individuale à la Henry Ford, che oggi si incarnano nel mito degli imprenditori-star, quei personaggi pubblici del calibro di Steve Jobs e di Elon Musk – quanto a un’etica dell’innovazione che si distacca dall’etica delle tecnologie.
Oggi come oggi l’innovazione appare a-etica, anche a causa della sua profonda commistione con il campo dell’economia e della tecnologia e, così, l’innovatore si trova situato “al di là del bene e del male”.
O l’innovazione designa un orientamento nel quale le scelte degli utenti-consumatori non sono immediatamente decisive – non determinano cioè niente di sostanziale rispetto a una politica industriale o pubblica, oppure concernente l’orientamento dell’impresa sullo sviluppo di servizi o dei mercati in cui essa deve investire; oppure l’innovazione può applicarsi anche a casi concreti in cui l’intervento e la partecipazione degli utenti risulta decisivo. A seconda della scelta che facciamo in questi contesti, l’approccio etico richiesto non può essere lo stesso: nel primo caso, l’innovazione dovrebbe essere inclusa dall’alto nelle strategie dell’organizzazione che la propone, e sarebbe trattata come una variabile tra le tante (sostenibilità economica, interessi degli azionisti, etc.). Nel secondo caso, invece, è possibile disegnare un’etica dell’innovazione partecipata, a patto di partire da da criteri specifici.
Produrre un’etica dell’innovazione significa innanzitutto superare alcuni pregiudizi ben radicati, il primo dei quali consiste nel considerare le innovazioni neutre rispetto al contesto umano, sociale e culturale, nel quale esse sono prodotte. Secondo Ménissier è quindi fondamentale comprendere gli oggetti tecnici e i processi di innovazione come parte del mondo umano che li ha prodotti, dei quali è possibile ricostruire una genealogia che può mostrare i rapporti di forza, le finalità ultime e i valori che li orientano: oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, le innovazioni vengono recepite e riposano su un fondo impensato, sottratto a ogni riflessione etica e politica, il che vuol dire che le persone, i cittadini, i consumatori usano e si fanno “stravolgere la vita” da innovazioni sempre più frequenti e sempre più impattanti sull’ordine sociale senza averne nessun controllo e senza chiedersi abbastanza cui prodest?
Perché un simile percorso possa percorsi è però necessario, secondo Ménissier, che gli innovatori – siano essi tecnici, imprenditori, ricercatori – vengano affiancati nel loro lavoro da filosofi e umanisti, non solo a posteriori ma già all’inizio del proprio lavoro, in modo che le considerazioni sulle conseguenze del lavoro riescano a generare progetti ethic by design, nei quali cioè l’aspetto etico non sia solo un orpello pubblicitario, ma una sincera preoccupazione di chi fa innovazione. Per farlo, è necessario ripensare anche l’approccio delle scienze umane ai problemi tecnologici e, dunque, ripensare la preparazione di filosofi e umanisti rispetto al problema della tecnica e una riconsiderazione generale della facoltà di immaginazione come una risorsa cruciale per la teoria morale e politica.
La società moderna si è distinta dalle società antiche per il ruolo che essa ha accordato alla scienza e al discorso dei sapienti, seguita poi dal potere innovativo rappresentato dall’industria e dagli industriali. In seguito, essa è divenuta, nell’epoca contemporanea, una società di esperti – che si tratti di esseri umani o di algoritmi – nella speranza di imbrigliare il potere creativo dell’innovazione e, in qualche modo, di poterla governare. Lo scopo rimane quello di rispondere agli stimoli del mondo, in qualche modo, prevedendoli o addirittura imponendo il cambiamento, ma è ormai piuttosto evidente che il compromesso tra casualità e pianificazione offerto dall’innovazione per come è stato inteso fino a ora, non è più sostenibile.
Sono diversi i movimenti che puntano a un’idea differente di innovazione, ma non sono tutti positivi: il monopolio di fatto costituito da GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) e BATX (Baidu, Alibaba, Tencent et Xiaomi) rappresenta un destino nel quale l’umanità è irretita in una maglia di controlli algoritmici (esercitati attraverso smarphone, smart car e smart cities) sulla quale non ha nessuna autonomia, dalla quale non esiste nessun affrancamento e sulla quale non si ha nessun potere, si subisce e basta; dall’altra parte, un’idea differente e condivisa di innovazione sociale che, ci conferma Ménissier, si sono sviluppati negli ultimi anni e provano a coniugare diverse forme di innovazione nel tentativo di dar vita a una società in cui ognuno possa accedere a mezzi che permettano, se lo si desidera, di trasformare le condizioni della propria esistenza.
È in fondo anche compito nostro, degli umanisti e dei filosofi, ci dice Ménissier, pensare a nuovi modi per rendere fruibili e accessibili gli strumenti utili a una simile innovazione che coinvolge non solo il futuro, ma soprattutto l’avvenire di tutti noi.