di Diego Lazzarich (Università “Luigi Vanvitelli” della Campania).
Il testo è stato pubblicato, col, titolo Se il virus diffonde il contagio della gratitudine, sulle pagine de Il Mattino di Napoli, il 16 aprile 2020, pagina 43.
Le drammatiche conseguenze sanitarie del Covid-19 hanno fatto emergere in ogni paese occidentale colpito un imprevisto effetto collaterale positivo. Nelle varie opinioni pubbliche dominate dalla paura, il sentimento della gratitudine ha avuto la forza di affermarsi come potente controcanto alle cupe melodie dell’incertezza. A suscitare questa reazione è stata la presa di coscienza generalizzata che se il personale medico e paramedico non dimenticasse costantemente gli orari di lavoro, le pause pranzo, i giorni di riposo, la famiglia e i figli, ovunque i morti avrebbero raggiunto cifre considerevolmente maggiori. Posti di fronte a un tale atto di generosità, persone qualunque, istituzionali e capi religiosi sentono il dovere di manifestare pubblicamente il proprio debito di gratitudine per un dono così prezioso e salvifico, cercando di ricambiare in qualche forma. In un’epoca che si costituisce a partire dall’idea dei diritti piuttosto che da quella dei doveri e in cui l’utile individuale è il metro dell’agire sociale, l’emergenza sanitaria sta divenendo non solo uno stato d’eccezione giuridico, ma anche valoriale, facendo emergere un sentimento sociale posto per secoli come collante del tessuto socio-politico, ma poi marginalizzato con la Modernità.
Sin dall’origine della tradizione filosofico-politica occidentale, infatti, il tema della gratitudine è stato al centro di un’attenta riflessione che assegnava enorme importanza alla presa di coscienza del bene ricevuto e alla sua restituzione. Già nei poemi omerici, la gratitudine rappresentava un orizzonte di senso dentro cui articolare i rapporti umani, politici e finanche le relazioni tra uomini e dèi. A differenza del concetto contemporaneo di gratitudine, nel mondo greco, questa era primariamente intesa come il gesto per consolidare i rapporti di amicizia e la tenuta delle relazioni su cui si reggeva l’intera polis. Interrompere tale circolarità significava rompere il legame di gratitudine e, con esso, l’ordine cosmico e mondano della Giustizia (Dike). I più grandi filosofi greci si sono cimentati con questo concetto, e tra questi anche Platone il quale sosteneva che più grande è il bene ricevuto, maggiore dev’essere il vincolo di gratitudine verso il benefattore. La vita (biologica e civile) e l’educazione erano da lui interpretati come i massimi doni, pertanto i genitori e la patria erano concepiti come i destinatari della più alta gratitudine. Un debito, quest’ultimo, che egli riteneva giusto onorare in tutti modi, finanche con la ‘restituzione della vita’, come dimostrato dall’esempio di Socrate che, pur di non apparire ingrato verso Atene e le sue Leggi, decise di non fuggire dinanzi alla condanna a morte.
Nel mondo romano la gratitudine era legata alla stessa idea di restituzione tangibile di un bene/favore ricevuto. Ad essa, anzi, era attribuita una funzione ancora più importante, come testimoniato dalle parole di Cicerone, per il quale tra tutti i doveri di un cittadino, “nessun officium è più essenziale della gratitudine” per vivere secondo giustizia e onestà. Le conseguenze della mancata osservanza di un dovere così cogente sarebbero state fatali: gli esseri umani avrebbero dimenticato di essere al mondo gli uni per gli altri, l’ingratitudine avrebbe scoraggiato la generosità, il tessuto sociale si sarebbe lacerato e il senso del bene comune e le istituzioni repubblicane si sarebbero corrotte. Così grave era ritenuta la mancata gratitudine che nel Dei benefici Seneca arrivava a sentenziare: “Ci saranno sempre omicidi, tiranni, ladri, adùlteri, seduttori, sacrileghi, traditori; ma peggiore di tutte queste colpe è l’ingratitudine”. All’origine di una condanna tanto grave risiedeva la convinzione che l’ingratitudine avrebbe spezzato la fides, vale a dire la fiducia reciproca che consente agli uni di fidarsi degli altri, la fede nella certezza che il futuro sia posto a garanzia del presente, assicurando così la stabilità della società.
Ancora fino alla fine del XVIII secolo, la gratitudine ricopriva una grande importanza nei pensieri politici e nelle pratiche sociali e pubbliche, poi le rivoluzionarie dottrine dei diritti naturali e del contrattualismo politico, la monetarizzazione dei rapporti sociali e l’individualismo egualitario hanno contribuito alla marginalizzazione della gratitudine dall’orizzonte del vivere comune.
L’esplosione di gratitudine legata all’emergenza da Coronavirus ha lacerato la dimensione socio-politica ordinaria, lasciando emergere un substrato antico che riconosce alle logiche della restituzione del bene ricevuto e della generosità un ruolo cardine per la cura del bene comune. Dopo una crisi tanto drammatica, è difficile pensare che la gratitudine pubblica non suggerisca di ripagare il profondo debito accumulato verso medici, scienziati e ricercatori (e molti altri) sotto forma di investimenti in quegli ambiti rivelatisi indispensabili per la tenuta della società e per garantire il bene comune, così che nessuno più sia costretto a diventare eroe semplicemente perché sta facendo il suo lavoro.
Stampa questo articolo