Entrata prepotentemente a far parte del lessico quotidiano da qualche decennio a questa parte, la parola innovazione copre un vasto orizzonte semantico, spaziando in contesti sociali e culturali anche molto diversi tra loro. Si tratta di una di quelle parole chiave in cui si condensa lo “spirito del tempo” e la cui frequenza d’uso è direttamente proporzionale alla forza del suo contenuto valoriale positivo, assunto, il più delle volte, senza beneficio d’inventario.
Termini come “innovare”, “innovazione”, “innovativo” costituiscono il mantra del capitalismo contemporaneo, presentandosi come una “filosofia di vita” che non riguarda soltanto quei settori della vita sociale immediatamente connessi alla sfera economico-produttiva. Silenziosa e capillare religione senza divinità, al culto dell’innovazione partecipano sacerdoti e adepti in ogni campo della vita sociale: una sorta di inedito “fatto sociale totale” che con il “dono” di maussiana memoria condivide solo la capillare penetrazione in ogni campo e momento della vita sociale.
L’essere innovativi è oggi il vero passpartout per accedere, con successo, alle sfere fondamentali dell’esistenza collettiva.
Proprio per questi motivi è da segnalare l’audace impresa di John Patrick Leary, che con il suo Keywords: The New Language of Capitalism (Chicago, 2018) tenta di penetrare nella profondità senza concetto di alcune delle più usuali parole chiave del capitalismo contemporaneo, al fine di segnare con cura i contorni e le sfumature di un orizzonte di senso che ci appartiene senza tuttavia essere stato sufficientemente problematizzato. Per Leary, si tratta infatti di comprendere, attraverso un’analisi dei principali lemmi in voga nell’epoca del capitalismo digitale, in che modo il linguaggio stabilisca un punto di contatto con ciò che stiamo vivendo: accountability, brand, creativity, empowerment, human capital, innovation, meritocracy, sono solo alcune delle parole chiave passate al vaglio da Leary. Come se, attraverso l’analisi di ciò di cui stiamo parlando, fosse possibile prendere contatto con ciò che stiamo vivendo. Interrogare il linguaggio, in sostanza, significa per Leary interrogare le forme del nostro vivere:
«Are we living in a new stage of capitalism, though, or are today’s digital technologies just a different version of our ancestors’ railroads and six-shooters, our Silicon Valley titans just the newest update to the ketchup and steel tycoons of an earlier, east-coast fantasy of wealth and opportunity? Identifying what makes our moment unique (or not) is no easy task, in part because we are living in it, and in part because the language we have to understand and describe our era’s inequality is itself one of the instruments of perpetuating it. How can we think and act critically in the present when the very medium of the present, language, constantly betrays us?».
Non è un caso se la parola “innovazione”, in questo caleidoscopio di parole e lemmi che sembra essere Keywords, possa quasi fungere da vero e proprio passpartout che tutti i lemmi presenti nel testo attraversa, “futurizzandoli” in una sorta di eterno presente dai confini incerti e dalla in apparenza infallibile e insuperabile pervasività. Come a dire che l’innovazione sembra essere dotata di una trasversalità tale da conferire senso al mondo pur variegato delle parole che utilizziamo nel corpo a corpo con il capitalismo contemporaneo.
Così, da parola senza concetto, il lemma innovation si trasforma in una sorta di scandaglio del nostro inconscio collettivo, che si scopre abitato da figure visionarie e apocalittici profeti del “nuovo” a tutti i costi, del “nuovo” come modo di vivere. L’innovazione, a partire dall’antico sospetto nutrito dalla modernità di un Hobbes o di un Burke, è oggi diventata l’archetipo dell’ovvio, di tutto ciò che è «bello, ideale, simpatico», per usare le parole del giurista.
Se Althusser, criticando un certo marxismo, amava descrivere la storia come un «processo senza soggetto», l’innovazione, superando la dimensione esistenziale della “storia” e del “progresso”, si presenta invece come un «processo senza oggetto». È vero, come ci ricorda Leary, “si innova” sempre in un campo definito e l’innovazione è sempre più, oggi, “innovazione di processo” o di “prodotto”, ma l’effetto più profondo di questa filosofia di vita riguarda proprio le sue potenzialità antropologiche, il fatto di presentarsi l’innovazione nelle vesti del “visionario tecnologico”, che rompe la monotonia della ripetizione introducendo la differenza, lo scarto.
Il risultato è che l’innovazione non è più, come per l’imprenditore di Schumpeter, il risultato di un processo creativo raro e discontinuo, ma di una perpetuità totale che spalma il presente oltre lo scarto tra la differenza e la ripetizione. Ciò accade quando a ripetersi è proprio la monotonia asfissiante del nuovo, che rende l’innovazione stessa una merce e l’individuo che ne è il portatore il suo profeta.
Il capitalismo contemporaneo mobilita a tal fine non solo l’intero apparato produttivo, ma sottomette le strutture della ricerca e della conoscenza scientifica all’imperativo dell’innovazione, come se quest’ultima potesse essere l’effetto di una sorta di volontà destinale. Si scorge, in questo scorcio, l’estrema distanza dal modo in cui l’innovazione si presentava fino al secolo scorso in quanto scarto involontario, prodotto anonimo del frastuono della macchina produttiva. Invece, rispetto ai decenni passati, si vorrebbe oggi produrre innovazione privatizzando il general intellect, rinchiudendolo nelle centrali della conoscenza, dove flotte di ricercatori perseguono l’obiettivo dell’innovazione in un regime produttivo di tipo semi-fordista.
L’innovazione risponde quindi oggi alle urgenze di una società senza crescita economica, i cui mercati sono per lo più saturi e dove la serialità ripetitiva dell’algoritmo ha sostituito gran parte dei processi decisionali dell’umanità.
Sebbene siamo dunque immersi nell’epoca dell’innovazione, essa appare in definitiva sempre più sfuggente e merita pertanto lo sforzo filosofico e genealogico della comprensione e dell’analisi.
Come afferma Leary, infatti: «you can touch a telephone or a phonograph, but who can lay hands on an Amazon algorithm, a credit-default swap, a piece of proprietary Uber code, or an international free trade agreement? As an intangible, individualistic, yet strictly white-collar trait, innovation reframes the cruel fortunes of an unequal global economy as the logical products of a creative, visionary brilliance. In this new guise, the innovator retains both a touch of the prophet and a hint of the confidence man».
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