Se la storia dell’affermarsi del concetto – e della pratica – moderna della rivoluzione è uno dei luoghi di origine del nostro presente, come pensare il nostro tempo – nell’età dell’apparente scomparsa della Rivoluzione e di quel moderno che, in quanto storia “borghese”, è stato innanzitutto rivoluzionario? Questo è forse uno degli interrogativi che solleva il nostro costante, onnipervasivo e ritualmente ossessivo uso del sostantivo innovazione e del relativo aggettivo “innovativo”. L’innovazione sembra infatti aver sostituito e sussunto la rivoluzione, e ciò che prima si presentava come rivoluzionario viene, al più descritto oggi, come innovativo.
Questa operazione di apparente sostituzione non è però una mera transizione linguistica, ma l’espressione di più ampie e complessive trasformazioni. In primo luogo, è l’oggetto stesso della rivoluzione (sociale, politica, economica) che si trasforma in altro nel suo divenire innovazione (sociale, politica, economia). In secondo luogo, lo spostamento semantico, implicato nel passaggio dalla centralità della rivoluzione al dominio dell’innovazione, è indice dei mutamenti nelle forme di vita sociale sempre più ordinate intorno al primato della tecnologia. Del resto, ogni grande innovazione tecnologica – si pensi, ad esempio, al telaio meccanico, alla macchina al vapore, alla comunicazione di rete – benché frutto del mutamento nella capacità produttiva sociale, produce essa stessa ulteriori cambiamenti produttivi, sociali e culturali. In altri termini, nessuna vera innovazione tecnologica è riconducibile solo al mutamento tecnico, perché in essa risuonano processi di trasformazione più profonda nelle relazioni tra uomo e uomo, uomo e natura, uomo e “ambiente”. In ultimo, essa mette in risalto i mutamenti nelle nostre semantiche e nei nostri vissuti temporali, con la sostanziale scomparsa della distanza escatologica della rivoluzione a favore del futuro sempre più “presentizzato” dell’innovazione.
Se l’orizzonte della rivoluzione si presentava (almeno in apparenza) chiaro e distinto, e strettamente legato al cammino che ne preparava la realizzazione, quello dell’innovazione si staglia su di un futuro indistinto e rivela l’assoluta genericità delle sue forme e dei processi che lo orientano. Basti pensare all’ambiguità delle definizioni che correntemente attribuiamo al termine.
Una prima e generica definizione di innovazione è quella secondo cui con esso s’indica ogni forma di cambiamento, di trasformazione o di mutamento che “migliora” – ossia che rende più adeguato – un oggetto o un processo ad un bisogno determinato. In tal senso, essa è sempre il prodotto sociale di un “bisogno”, più o meno espresso, cui viene data una risposta attraverso uno spostamento o un mutamento tecnologico o organizzativo. Un mutamento, si badi, che si distingue dall’improvvisa e repentina rottura prodotta dall’invenzione.
La natura descrittiva e strumentale (quindi largamente insoddisfacente) di questa definizione, tutta schiacciata sul “oggetto” e sul “prodotto” ci permette di cogliere il senso che attribuiamo all’innovazione quando essa è associata alla trasformazione tecnologica o al mutamento, dei processi produttivi. Essa lascia tuttavia inevase le questioni connesse ai campi più ampi e indistinti – ma non per questo meno importanti – concernenti il soggetto dell’innovazione, le forme (e il senso) dell’innovazione sociale e storica, nonché di quei processi di più ampia trasformazione culturale “consapevole” e orientata e che – in termini non semplicemente descrittivi – implicano anche una dimensione assiologica.
In effetti, almeno nei casi di innovazione cosiddetta “radicale” (innovation innovante), essa: «répond en effet à un besoin qui ne se trouve même pas encore coscient dans la société; on pourrait dire qu’elle réorganise la société en fonction d’un besoin virtuel de cette dernière» (Méinissier 2011:12). Essa implica, quindi, una più complessiva riorganizzazione delle relazioni tra i tempi del vivere sociale poiché, pur nella relativa continuità del mutamento, da un lato “anticipa” il futuro nel presente “producendo” ex novo un “bisogno”, dall’altro lato “futurizza” il presente poiché risponde al nuovo bisogno attraverso uno scarto tecnologico, produttivo o organizzativo che si presenta come un “pezzo di futuro” collocato nel presente. In tal senso, a fronte di “un possibile” che non è prevedibile del tutto (l’azione trasformativa conserva sempre una sua aleatorietà), l’innovazione emerge come una sorta di congiuntura, un evento che ci pone “faccia a faccia” col reale: «Mais on peut aussi avancer que le propre de l’innovation véritable est de réorganiser les besoins réels des hommes en les ouvrant à du possible, par définition non totalement prévisible. Corrélativement, on dispose en quelque sorte, avec le concept d’innovation, d’une idée capable de fournir une conjecture d’avance vis-à-vis du réel» (Ménissier 2011:12).
Il rapporto tra il passato, il presente e il futuro si struttura, allora, intorno alla spiazzante continuità delle innovazioni che “futurizzano” il presente. A differenza della presentificazione del futuro operata dall’orizzonte rivoluzionario tipico dell’età moderna.
Proprio il passaggio dall’orizzonte della Rivoluzione a quello dell’innovazione deve essere indagato nel suo senso storico e filosofico. La scomparsa della rivoluzione è indice di una cesura storica epocale, nella quale scompare il totalmente nuovo che essa prometteva. Con la scomparsa di questo totalmente nuovo vengono meno, almeno in apparenza, anche quegli orizzonti ideali, emancipatori e quindi le forme di vita politica che a esse erano associati. Allo stesso modo, sembra venir meno quell’orizzonte progressivo e distintivo che faceva da riferimento ideale per una critica del presente, rendendo lo status quo – anche quello democratico – qualcosa di radicalmente contestabile. Per contro, l’innovazione non si colloca, come la rivoluzione, al di fuori dell’orizzonte presente. Essa è piuttosto una dimensione motrice interna del mutamento e opera, sempre, come opzione e strumento di aggiornamento, riforma, adattamento. In altri termini, se la Rivoluzione pensava la rottura radicale, l’innovazione sembra piuttosto praticare la continuità del mutamento. Tuttavia, al pari della Rivoluzione anche l’innovazione, nel dover anticipare quei bisogni (quelle spinte sociali) che la muovono, non può che essere connessa all’imprevedibilità. Non si tratta, quindi, di riattualizzare nella contrapposizione tra rivoluzione e innovazione il conflitto che tra Otto e Novecento ha visto contrapporsi – in particolare nel contesto dei movimenti politici e sociali – pratica rivoluzionaria e pratica riformista.
Se si vuole tentare di risemantizzare la categoria di innovazione – sottraendola al dominio della tecnica e dei saperi gestionali – non si può, allora, non interrogare le dinamiche economiche e produttive delle società a capitalismo avanzato che ne sono il pre-requisito. Non è del resto un caso che l’innovazione sia innanzitutto una categoria “economica” e produttiva, connessa strettamente ai temi della ricerca e dello sviluppo ma anche, nella letteratura più recente, alla questione della “cooperazione”. In effetti, anche già anche dal punto di vista del sapere manageriale, è importante sottolineare come proprio l’impresa, che sia privata o pubblica, venga sempre interpretata come una unità cooperativa. Questo perché l’innovazione sociale mobilizza la cooperazione tra attori vari, e concerne i risultati e i limiti che sono stati immaginati nei termini della capacità di una società di riorganizzarsi. In tal senso, essa deve favorire innanzitutto relazioni interpersonali di un genere nuovo, e forme nuove di socialità che, auspichiamo, possano realizzarsi come forme e secondo logiche di cooperazione e non di competizione. Questa è la ragione profonda per cui l’innovazione si è affermata come un concetto-quadro nella rappresentazione sociale del cambiamento e della nostra relazione con il futuro e l’avvenire. In tal senso, intesa come innovazione sociale oltre che tecnologico-organizzativa, essa rinvia alla questione della relazione che si instaura oggi tra l’uomo e le dinamiche complesse, e relativamente autonome, attivate dai suoi artefatti e dai loro usi.
La categoria di innovazione ci permette, in altri termini, di problematizzare le relazioni attuali tra uomo e macchina, tra natura e artefatto, nonché tra agire e fare (praxis e poieis). In ultimo, il tema dell’innovazione entra in una relazione diretta e stretta con l’etica, o se si vuole col contemporaneo orizzonte dell’utopia, perché essa aspira a dare una risposta nuova a situazioni sociali giudicate insoddisfacenti. In particolare, quando essa assume le forme dell’innovazione sociale (si pensi ai piani diversi offerti dalle politiche del lavoro, dalle politiche urbane, agli investimenti…) essa implica una qualche relazione tra individui e collettività. Una relazione che non può essere descritta solamente in maniera funzionale o descrittiva, perché comporta anche una valutazione qualitativa (assiologica) del cambiamento. L’innovazione non deve quindi venire connessa esclusivamente al tema del vivere (magari strumentalmente orientato), ma deve anche essa venir ricondotta a quello del vivere bene (to eu zen): riflettere, in altri termini, sul senso del mutamento, dell’uso degli oggetti e del mondo, della produzione, della relazione. Questo implica un lavoro politico, oltre che semantico, se è vero che oggi l’innovazione vive dell’illusione del “tutto è possibile” e della coazione al nuovo. Il problema e il luogo della filosofia, soprattutto nel pensarsi come filosofia dell’innovazione, non può che essere ancora una volta definizione del limite; un limite che non deve certamente essere inteso astrattamente come l’in-oltrepassabile, ma come quello spazio liminare tra ciò che è possibile e ciò che può essere provvisoriamente ritenuto giusto. Questo orizzonte etico nel quale deve essere collocata l’innovazione, richiama necessariamente anche ai piani giuridico-normativo (pensiamo alle implicazioni connesse alle nuove biotecnologie e alle tecnologie riproduttive) e politico-istituzionale.
Ecco allora il richiamo alla necessità di pensare l’innovazione in relazione alla politica nell’orizzonte di una ideo-prassi “repubblicana”, sebbene rinnovata tesa a modificare e consolidare le condotte civiche.
Questo è il punto in cui innovazione e filosofia s’incontrano, ponendo, incidentalmente, proprio alla filosofia – e in generale alle scienze sociali – il problema del loro ruolo, se si vuole della loro missione, nelle società dell’innovazione. Un ruolo che non può essere solo quello, pur necessario, di leggere e interpretare il mutamento, per essere anche una pratica di trasformazione e di innovazione politico-sociale. Del resto, la filosofia è una forma di conoscenza che opera per concetti e che si indirizza al giudizio e all’azione. E la sua relazione con l’innovazione è strutturale poiché la filosofia “è l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti”. Ed ogni creazione è sempre una “singolarità” che deve darsi nell’agone, tra amici, al cuore della “città”. Questo è il senso in cui vale, ancora oggi, la raccomandazione marxiana per la quale è compito della filosofia non solo interpretare il mondo, ma “cambiarlo”, ossia produrlo – anche concettualmente.
Bibliografia minima
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