T. Poole, Reason of State. Law, Prerogative and Empire, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, pp.302.
Nel suo testo del 1589 Giovanni Botero definisce lo Stato come “un fermo dominio sopra i popoli” e la ragion di Stato come “la conoscenza de’ mezzi atti a fondare, conservare et ampliare un dominio”. La celebre definizione boteriana è l’atto di fondazione teorica di una ragione politica che ha come suo fine la “conservatione” dello Stato, ossia la sua sicurezza e insieme il suo potenziamento e sviluppo. Poche righe più oltre, lo stesso Botero osserva come, sebbene tutto ciò che si fa per la conservazione, ampliamento e fondazione di uno stato lo si fa per ragion di Stato, “nondimeno ciò si dice più di quelle cose, che non si possono ridurre a ragione ordinaria et commune”. Già nel momento della sua fondazione teorica, la ratio status si presenta quindi divisa tra una ragione ordinaria e una ragione straordinaria di governo.
Il volume di Thomas Poole indaga il nesso tra queste due rationes nel contesto della riflessione politica britannica e statunitense; a partire dal dibattito inglese di fine Quattrocento intorno alla natura e ai limiti della prerogativa regia, fino alle attuali riflessioni sui poteri di emergenza e sulla constitutional reason of State. Il riferimento all’orizzonte costituzionale della ragion di Stato non è improprio. Infatti, in apertura al volume lo studioso inglese fa riferimento a Marco Tullio Cicerone che nelle Le Leggi pone la salvezza del popolo quale legge suprema di una comunità politica. Lo stesso Cicerone mostra però come questo principio vada fatta valere attraverso procedure regolate – ed il riferimento è all’istituto del senatus consultum de re publica defendenda – tese a regolare l’uso della forza da parte dei consoli contro gli stessi cittadini. In altri termini, alle origini del tema della ragion di stato costituzionale l’autore ritrova l’esigenza di regolare il ricorso a poteri straordinari o in deroga alle leggi ordinarie nei casi di necessità. Pure in maniera tra loro differente, le riflessioni machiavelliane e guicciardiniane sul governo del principe, la definizione boteriana, la raison d’état del nascente stato assoluto francese e la Staatsräson sette e ottocentesca riflettono il problema di come ordinare tali poteri straordinari come parte di una azione ordinaria di governo.
L’obiettivo di Poole non è, tuttavia, quello di offrire una ricostruzione storica del concetto di ragion di Stato o delle sue teorie; egli intende piuttosto utilizzare questa lente problematica per affrontare la questione del “mutamento costituzionale” nel contesto politico e istituzionale britannico e anglo-americano. Nella sua indagine Poole fa innanzitutto propri i principi storiografici espressi da William Church nel suo fondamentale Richelieu and the Reason of State (1973) intendendo così indagare le modalità attraverso cui i problemi suscitati dal lemma reason of State vengono di volta in volta configurati e affrontati in un contesto storico specifico. Attraverso l’analisi di trattati, documenti e procedimenti giudiziari, e nel solco esplicito della cosiddetta scuola contestualista di Cambridge, l’autore descrivere i momenti nei quali questo concetto si afferma e evolve nella cultura politica britannica.
L’indagine prende quindi avvio con l’ipotesi secondo la quale il principio per cui in casi di emergenza è lecito passare dal right al might è interpretabile alla luce di quattro caratteristiche: la prima è la relazione stretta tra normativismo politico e agency che esso presuppone; la seconda, è la permanenza di questo principio nella storia politica moderna e contemporanea; la terza risiede nella specifica relazione tra governanti e governati che esso istruisce. In ultimo, l’emergere di una specifica relazione tra scelta morale e scelta politica. In effetti, quale sia la ratio che orienta la ragion di Stato è una questione rilevante per i sistemi politici costituzionali, che appaiono segnati dalla tensione che intercorre tra lo Stato come agente, e lo stato di diritto che vale come un vincolo “interno” alla sua azione. Il problema posto dalla necessità/opportunità di far ricorso a poteri straordinari è oggi variamente interpretato attraverso i concetti dei poteri di emergenza, di stato di eccezione, di prerogativa. Poole prende le distanze da questi approcci per riabilitare proprio la nozione di ragion di Stato. Secondo lo studioso inglese il riferimento ai poteri di emergenza solo in minima parte permette di cogliere la specificità del rapporto tra governo ordinario e governo straordinario. In particolare, i poteri di emergenza incidono ormai sulla organizzazione istituzionale dello Stato in maniera tale da mostrare, talvolta, una funzione strutturante che contrasta con l’eccezionalità che li ha attivati. Poole è anche convinto che la stessa categoria di eccezione dica poco della realtà attuale della “ragion di Stato”, in particolare quando si osservano le organizzazioni statuali liberal-democratiche. La ragion di Stato, infatti, “usually operates on a slightly less dramatic place – war, diplomacy, safety, security – and in ways that are rather quotidian” (p.5). Una terza cornice concettuale è invece offerta dalla tradizione giuridico-politica della prerogativa, di particolare rilievo per l’orizzonte costituzionale anglosassone. Tuttavia, proprio la sua specificità storica la rende solo parzialmente adatta a comprendere le forme di esercizio contemporaneo di un potere per ragion di Stato, a meno di tradirne la specificità giuridica. La ragion di Stato propriamente detta, la quarta categoria cui Poole fa riferimento, emerge allora come una più articolata relazione tra le istanze di sicurezza, di accrescimento politico-economico, di articolazione istituzionale di poteri e diritti: law, prerogative e empire per l’appunto.
La prima parte del testo ricostruisce, pertanto, i nuclei storici e teorici del concetto di prerogativa regia, che rappresenta secondo l’autore la “proto-storia” della ragion di Stato in ambito inglese. Quale superamento della ragione (giuridica) dello stato espressa dalla prerogativa, e quindi come tentativo di realizzare una pienezza di potere, l’autore discute Thomas Hobbes nella cui egli rinviene “an architectonic structure of legal rule” (p.12); una struttura che separerebbe in maniera determinata i confini della politica interna da quelli della politica internazionale. Questa linea di indagine mostra come, se osservati dalla prospettiva della ragion di stato, anche gli esponenti del repubblicanesimo inglese dell’epoca non esprimerebbero istanze troppo diverse da quelle hobbesiane, pur ponendo una decisa attenzione verso la necessità di individuare dispositivi politici e istituzionali capaci di evitare che la “ragione pubblica di stato” si trasformi nella ragione privata del governante. In questo contesto, l’influenza del Machiavelli – e di un certo “machiavellismo” – risulta per l’autore decisiva, e l’esito è rappresentabile come l’alleanza tra il Leviatano hobbesiano con l’Oceana di James Harrington. Poole colloca quindi le opere di autori come David Hume e William Blackstone nel solco della costruzione del governo della legge avviata da Hobbes; infatti, per questi autori la costituzione doveva far propri, e in tal modo contenere e governare, gli antichi poteri straordinari espressi dalle “prerogative regie”. Le istanze repubblicane, invece, troveranno una loro più precisa collocazione nelle teorie tese a sostenere l’affermazione di una società commerciale. Poole ricostruisce il contributo di autori come Marchamont Needham e Algernoon Sidney, per poi soffermarsi sui dibattiti costituzionali tra Sette e Ottocento che segneranno l’affermarsi del Regno Britannico come potenza commerciale. Quindi egli si sofferma sulle riflessioni intorno alla ragion di Stato e al commercio in autori come Adam Smith, Edmund Burke, John Stuart Mill, Walter Bageoth e Albert Venn Dicey. In tutte queste prospettive, l’autore ritrova lo sforzo di separare costituzionalmente il piano della politica “ordinaria” da quello della politica “straordinaria”. Il ventesimo secolo consegna al pensiero costituzionale, o almeno ad una parte di esso, una modalità differente di pensare la ragion di Stato: una reason of State come “mystery of lawlessness”, esito della crisi della prima metà del secolo e dello sviluppo del cosiddetto “Stato positivo”. Nell’ultima parte del suo lavoro, l’attenzione di Poole si sposta pertanto su autori importanti del pensiero conservatore e “liberale”, da Carl Schmitt, attraverso Friedrich Hayek a Michael Oakeshott, primariamente interessati a definire le relazioni tra guerra, legge e Stato-amministrativo. A questo percorso teorico si oppone lo sforzo, indagato prevalentemente attraverso l’opera di John Rawls, di fare a meno “della ragion di Stato” per sostituirla con una nozione più comprensiva e trasparente di ragione pubblica. Secondo l’autore questo sforzo ha trovato solo in parte successo, imponendo certamente una trasformazione dell’idea di ragion di Stato ma non certo la sua sconfitta. Per contro, ancora nel nostro presente globalizzato e diviso la tensione tra le ragioni del governo straordinario e quelle del governo ordinario di uno Stato resta drammaticamente ineludibile. Nelle pagine finali del suo lavoro Poole si mostra però convinto che nel contenimento di questa tensione un ruolo decisivo possa essere svolto dalle corti di giustizia e dalle corti costituzionali nelle quali, in maniera crescente, sotto la spinta di ONG e attivisti, la ragion di stato viene oggi contenuta e giuridificata; in altri termini, “costituzionalizzata”.
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